Il piccolo re Imperatore

In un paese lontano lontano c’era un castello di carta, alto quanto un monte, forte quanto una quercia. Un incantesimo magico lo aveva reso indistruttibile. Il vento non lo poteva piegare, la pioggia scalfire, la grandine forare. All’interno di questo palazzo, viveva un re. Che poi, dire re! Era un bambinetto di appena otto anni, paffuto e capriccioso.

In quel paese lontano lontano, tutti lo conoscevano, anche se nessuno lo aveva mai visto. Prigioniero di un regno di carta, temeva la luce del sole, il profumo dei pollini, il sorriso della gente. Si chiamava Imperatore e regnava dalla sua torre incantata, nella quale solo i servitori potevano mettere piede.

«Perché il re non apre mai le porte del castello?» chiedevano i viaggiatori da altri regni.

«E perché dovrebbe?» rispondeva il cantastorie. «Possiede vesti di broccato e calici d’oro, occhi di drago e polvere di diamanti. Pure io, se fossi il re, non farei entrare nessuno!»

Il cantastorie conosceva bene la storia dell’Imperatore, perché per anni gli aveva suonato la buonanotte e il buongiorno.

«Dalla porta del castello si può solo uscire» diceva. «Io me ne sono andato, perché volevo la libertà. Non sopportavo né il re né i suoi servitori!»

Il cantastorie recitava le fiabe con grandissima bravura, ma nulla sapeva dell’animo umano. E infatti ignorava una grandissima verità: anche il piccolo re, cullato da lenzuola di seta e coperte patinate d’oro, si sentiva terribilmente solo.

Passava tutti i giorni nella camera da letto. Leggeva, dormiva e sognava. E mangiava… mangiava moltissimo! Miliardi di caramelle gommose costellavano il pavimento di smeraldi, torte a venti strati si innalzavano sui tavoli d’avorio. E poi c’erano i bastoncini zuccherati, i bon bon al caramello e le girelle alla menta.

«Dovrebbe smetterla di mangiare, Altezza» gli dicevano i servitori. «D’accordo, un incantesimo rende il castello resistente, ma ancora qualche chilo e il palazzo si accartoccerà come la cartina di una caramella.»

“Ancora qualche chilo” era un modo educato per non dirgli: “Mettiti a dieta, grassone”!

Volete sapere che aspetto aveva il re, miei cari lettori? Largo quanto una mongolfiera, con rotoli di ciccia che trasbordavano dai pantaloni di lino, un triplo mento che arrivava alla pancia e cosciotti tanto in carne da far saltare le cuciture dei calzettoni.

«Mangio perché mi annoio!» strillava Imperatore. Sputi di saliva inumidivano la piramide di caramelle ai suoi piedi. «E se mi annoio, vuol dire che sono stufo. Vattene via! Via o mi mangerò la tua testa!»

Gli bastava avere qualche cosa da sgranocchiare. Poco importava se una carota, un bastoncino di liquirizia o il cranio di un servitore.

«Lo so bene che il palazzo sta crollando» diceva al suo riflesso nello specchio, quando restava solo nella sua stanza. «Ma che ci posso fare se sono un povero re triste e mi annoio?»

Per uccidere il tempo, inventava mille giochi. Dava un nome ai suoi vestiti, celebrava matrimoni e divorzi tra i mobili della stanza, improvvisava un teatro di burattini con calzini e vecchie lenzuola. E poi leggeva, libri giganteschi con disegni colorati ad acquarello.

«I disegni devono essere grandi. Perché se sono piccoli mi annoio e se mi annoio…»

State per dire mangia, miei cari lettori? Risposta corretta. Se un libro era troppo lungo o pieno di parole, doveva masticare trenta stecche di cioccolato per non annoiarsi.

Finché un bel giorno il giardiniere del castello gli regalò un libro di animali.

Quando il re lo sfogliò, trovò davanti agli occhi un mondo nuovo:

«Perché nel mio castello non c’è un gatto che fa miao, un cane che fa bau e un asino che fa hiho? Perché mio padre e mia madre sono morti e mi hanno lasciato solo oro, diamanti e argento?»

Verde e ubriaco d’invidia, strillò che non era giusto e strappò le pagine del libro. E poi spiccicò gocce di cioccolato sui disegni, per rendere quegli animali illustrati brutti e sporchi: se non li aveva lui, allora non doveva possederli nessuno, nemmeno un pezzo di carta.

«E questo cos’è?»

D’improvviso Imperatore si fermò. Rimase imbambolato a fissare il centro della pagina, l’immagine di un piccolo esserino, con due ali aggraziate e il becco socchiuso. Era giallo, lo stesso colore della luce e della felicità.

«Usignolo» lesse il piccolo re. «La sua voce è la più dolce del mondo.»

Subito un’idea gli balenò in testa:

«Anch’io voglio un usignolo! Perché devo avere solo degli sciocchi cantastorie che stonano, strillano e strimpellano! Anch’io voglio un usignolo! Sono o non sono il re?»

I servitori di corte accorsero, il fiatone nel petto, il terrore che Imperatore pranzasse davvero con le loro teste. Li potete immaginare in fila, inchinati, tutti vestiti di nero e bianco, con le gambe che tremavano di paura?

«Voglio un usignolo. Mi annoio, mi stufo e mangio! Portatemi quell’uccello e ordinategli di cantare solo e sempre per me!»

«Ma Altezza» osò il maggiordomo. «Non ne ho mai visti nel castello di carta.»

«Ne voglio uno!»

«Vostra Maestà» azzardò lo chef. «Che ne dite se vi faccio una torta a forma di usignolo?»

«Ne voglio uno vero!»

«Ma Altezza…»

«Lo voglio! Lo voglio! Lo voglio!»

Imperatore si tirò i capelli e saltò sul posto. Pesante come un macigno, fece vibrare il castello. Fu in quell’istante che la torre est del palazzo si sgretolò in mille coriandoli. Fu per colpa di un capriccio e di un re testardo che le mura di cinta si spezzarono a metà.

Allarmato dal terremoto improvviso, il giardiniere raggiunse il piccolo re nella stanza del consiglio. Si sentì davvero in colpa per quello spiacevole imprevisto! Ma perché gli aveva regalato il libro di animali?

«Io so dove trovare un usignolo!» disse. «Ho visto una famiglia di usignoli qualche mese fa, nel bosco dietro alla sorgente!»

«Portamelo, portamelo, portamelo!» strillò Imperatore.

Rosso in viso, sembrava sul punto di esplodere. E allora sì che per il castello di carta e i suoi abitanti sarebbe stata la fine!

Il giardiniere acconsentì e l’indomani si mise alla ricerca dell’usignolo. Fu una missione facile: un esemplare giovane, un maschio, stava sul primo ramo della foresta e cantava a pieni polmoni. Voleva attirare tutte le attenzioni su di sé, che gli altri animali si complimentassero.

E pensare che sua madre glielo diceva sempre:

«Non cantare troppo forte! Non cantare ai bordi del bosco!»

L’usignolo pagò il prezzo della sua presunzione. Un colpo in testa e si risvegliò in una gabbietta stretta stretta. Non un vermiciattolo da mangiare, non un goccio d’acqua, non un nido di paglia dove schiacciare un pisolino. In compenso c’era lui, un mostro di bambino, grasso e cattivo, che lo fissava con la bava alla bocca.

«Non mangiarmi!» lo supplicò l’usignolo.

«Canta!» strillò Imperatore. «Canta o ti mangerò!»

L’usignolo si fece piccolo piccolo, schiacciato dall’ombra malvagia del bambino. Voleva cantare, ma la voce era incastrata in gola.

«Ma la mia mamma…» provò a dire.

«Canta!» strillò di nuovo Imperatore e questa volta l’usignolo trovò il coraggio di obbedire.

Immaginò di essere nel bosco dietro alla sorgente, con le sue sorelle e i suoi fratelli, e di gorgheggiare le melodie allegre con cui allietava gli animali della foresta.

Imperatore si lasciò cullare dalle note musicali. La voce dell’usignolo, dolce come il miele, lavò via i brutti pensieri e la sofferenza. E il re si sentì felice e amato. Non gli mancavano più i suoi genitori, non gli amici che sognava di avere, non la voglia di trangugiare mille varietà di dolciumi.

«Ora che ho cantato posso tornare a casa?» chiese l’usignolo.

Facile indovinare la risposta dell’Imperatore: “no”. L’usignolo iniziò allora a piangere e il bambino sentì una morsa al cuore. Perché in fondo lui e quell’uccellino erano entrambi soli e infelici.

«Un giorno» gli promise. «Quando sarà il tuo canto invece che le tue lacrime a commuovermi. Solo allora sarai libero di andare.»

L’usignolo lo ringraziò e cantò con tutta la sua anima. Cercò quelle canzoni che pizzicavano le corde del cuore, le note che invocavano le lacrime, i suoni che scioglievano sassi e diamanti.

E Imperatore pianse, in continuazione. Il secondo e il terzo e il quarto e il quinto giorno. Pianse per un anno intero, ma mai si decise ad aprire la gabbietta.

«Avevamo un accordo!» protestò l’usignolo. «Ti ho commosso. Perché non posso andare?»

«Perché tu resterai qui, con me! Io non sarò più solo! Fino al giorno in cui morirai tu o morirò io!»

Forse un mago si nascondeva tra le carte del palazzo, o forse una strega, nemica di re e di regine, dietro il drappo vermiglio di una tenda. Le parole di Imperatore si trasformarono in profezia: una fortissima febbre colpì il piccolo re. Tosse, mal di gola e raffreddore. La pelle si ricoprì di puntini blu, la lingua divenne viola, gli occhi rossi.

«È la malattia dell’orco del Nord» disse il maggiordomo.

«È il morbo del fantasma delle selve oscure» lo corresse lo chef.

«Credo sia morbillo roditoresco con un pizzico di scarlattina gufiana e grassociccionite da tasso» commentò il medico.

In tutti e tre i casi la diagnosi fu la stessa: mortale. Secondo i dottori del castello, il piccolo re era spacciato. Inutile perdere tempo alla ricerca di cure! Bisognava trovare un successore al trono e in fretta.

La notizia si diffuse in tutto il castello e arrivò alle orecchie del giardiniere. Era un freddo inizio di marzo e mai come in quell’anno le rose avevano bisogno di cure. Ma appena il giardiniere conobbe la sorte del re, passò all’azione:

«Io ho condannato quel povero usignolo a restare in gabbia. E adesso lo salverò. Il nostro re sta per morire. Che cosa se ne fa un re morto di un usignolo in gabbia? Lo libererò prima che il prossimo re decida di torturarlo.»

Subito si infilò nei cunicoli più segreti del castello e calpestò i gradini di carta fino alla torre con la stanza del re.

Imperatore giaceva in punto di morte, le lenzuola sporche, non una sola caramella da mangiare. E la pelle sempre sempre più blu.

«Fa quasi pena» disse il giardiniere. Ma poi si ricordò dell’usignolo. «Sono qui per salvarti, povero uccellino. Il re sta per morire.»

L’usignolo dormiva rannicchiato sul trespolo, affamato e infreddolito. Unica coperta le piume, un tempo color sole e ora giallo spento. Ormai disperava di poter schiudere le ali e volteggiare nel cielo aperto.

«Vola via» gli disse il giardiniere, dopo aver aperto la gabbietta. «Svelto. Vola via in fretta. Torna dalla tua famiglia. Sei libero.»

L’usignolo si pulì gli occhi con le penne. Non poteva credere alle sue orecchie! Dopo un anno di prigionia, l’uomo che lo aveva catturato era venuto a salvarlo. Il cuore prese a battere nel petto, la gioia di correre a casa, abbracciare sua madre, cantare per gli animali del bosco.

«Yuppie!» gridò in un cinguettio. Volteggiò disegnando cuori e stelle nella stanza di carta. «Yuppie! Sono libero!»

Planò sul davanzale della finestra. Mezzogiorno in punto, un cielo azzurro cobalto con una nuvola a forma di vermiciattolo nel centro. E la voglia di tuffarsi in mezzo a quei batuffoli e sentire il vento che gli scompigliava le piume.

Bastava un salto, un battito di ali per impugnare la libertà. E non c’era un solo ostacolo tra lui e quel cielo limpido. Non il giardiniere, ormai lontano, non il piccolo re, sul letto di morte. E allora perché le zampette si rifiutavano di saltare?

«Sta morendo e non c’è nessuno qui con lui» si disse l’usignolo. «Non la sua mamma, non il suo papà, non il maggiordomo e nemmeno il giardiniere che mi ha catturato.»

Capì allora che il piccolo re gli assomigliava. Non era di natura malvagia, ma la solitudine gli aveva inacidito il cuore. Ogni capriccio derivava dal dolore, ogni piagnisteo dalla tristezza, ogni cattiveria dall’ignoranza: tutti i suoi cari lo avevano abbandonato e così credeva di dover usare la forza, per ottenere l’amore.

«Se adesso me ne vado, sarò migliore di te?»

L’usignolo spiccò il volo fino al letto del bambino. Rimase tutta la notte a cantare le melodie più allegre che conosceva e quando il sole sbucò all’orizzonte, avvenne il miracolo.

Forse quel mago o quella strega si aggiravano ancora per il castello di carta. Forse ebbero pietà del piccolo re e del suo amico usignolo. I raggi del sole cancellarono le macchie blu e in pochi minuti Imperatore guarì.

«Perché sei rimasto qui?» chiese il bambino all’uccellino giallo. «Potevi fuggire, come hanno fatto i miei servitori. Ti ho trattato male e non ho mantenuto il nostro accordo.»

Mentre parlava, le lacrime gli salirono agli occhi. Ma questa volta non erano piagnistei e capricci, solo un’incredibile gioia.

«Non potevo lasciarti da solo» disse l’usignolo.

Si imbarazzava ad ammetterlo, ma in quell’anno aveva imparato a leggere oltre le strilla del bambino. A modo suo, aveva imparato ad amarlo.

Imperatore si asciugò gli occhi con il lembo del lenzuolo e diede una grande soffiata al naso.

«Sei libero di andare» disse all’usignolo. «Mi dispiace.»

Per come lo aveva trattato, per i capricci e le menzogne. E per non aver meritato l’affetto che quell’uccellino gli stava donando.

L’usignolo lo ringraziò con un cinguettio e planò fino al davanzale. Questa volta il cielo azzurro gli sembrava davvero pronto ad abbracciarlo. Sentiva di essere in pace, libero dalle sbarre di una gabbia e dalle catene dei sentimenti. E sapeva che ormai tra lui e il piccolo re si era stretto il nodo dell’amicizia: il loro non sarebbe stato un addio.

«Tornerò a trovarti» disse al bambino. «Tornerò a trovarti presto.»

Imperatore sorrise nelle sue guance paffute e rimase a guardare l’usignolo librare nel cielo e mimetizzarsi nel giallo del sole.

Qualche mese dopo, il cantastorie raccontò la loro storia. Disse che la malattia del re bambino fu un dono per gli abitanti del castello di carta. Non ci furono più abbuffate di dolciumi, minacce di morte, pianti a dirotto e salti per distruggere il palazzo. E disse che fu un dono anche per Imperatore, perché da quel giorno non si sentì più solo.

4 commenti

  1. Gurghi ha detto:

    Wow!! Sono nuova qui, sono contenta di aver scoperto il tuo blog! Scrivi divinamente e in un baleno camminavo anche io nei corridoi di carta…

    Piace a 1 persona

    1. Odiblue ha detto:

      Ciao! Piacere di conoscerti! Ti ringrazio per le tue bellissime parole, non puoi immaginare quanto mi abbiano migliorato la giornata. Grazie! 😉

      Piace a 1 persona

  2. libramivita ha detto:

    È una fiaba davvero bella! Non vedo l’ora di leggerla a mio nipote! Una piacevole scoperta 😄

    Piace a 1 persona

    1. Odiblue ha detto:

      Ciao! Ti ringrazio per le tue bellissime parole! Sei stata molto gentile a lasciarmi questo commento. Grazie! 😉

      "Mi piace"

Lascia un commento