La scienza dello storytelling – Will Storr

Come le storie incantano il cervello. Un breve commento

Ho in programma questo articolo da una vita, ma si sa come funziona l’estate: “C’è caldo, c’è freddo, c’è il sole, piove, ho sonno, non ho sonno, dov’è il gatto, il gatto rompe”. Insomma, ogni cosa e il suo contrario, e così il tempo sta fuggendo e io sono meno operativa del solito – sotto ogni fronte. 

Su Instagram, qualche tempo fa, avevo annunciato l’acquisto di un libro di storytelling: Will Storr, La scienza dello storytelling, come le storie incantano il cervello. Mi ero ripromessa di scriverci qualcosa ed eccoci arrivati al dunque. 

Premessa: cosa mi aspettavo da questo libro? Un testo utile e pratico che mi desse delle dritte su come migliorare il mio stile di scrittura. 

Le aspettative sono state soddisfatte? Non nel vero senso della parola. Il libro di Storr non analizza puramente le tecniche narrative e le informazioni concrete che vengono date sono molto limitate. 

Per farvi un esempio: show don’t tell, attivo vs. passivo, uso delle metafore e simili sono argomenti trattati in maniera veloce, in un paragrafo a testa. 

Ciononostante, il libro mi è stato molto utile e, a lettura conclusa, mi sono sentita arricchita e anche rassicurata.

Fine della premessa!

Il libro ha un intento divulgativo e verte soprattutto sul rapporto tra scrittura e cervello. Cerca di suggerire trucchi e strategie per solleticare l’attenzione di un lettore e stimolarlo a procedere con una storia. Già l’introduzione è molto accattivante e incentrata sull’importanza che le storie hanno da sempre per l’essere umano. 

Sarebbe impossibile comprendere la realtà umana senza storie da raccontare. Le storie riempiono le pagine dei giornali, affollano i tribunali, gli stadi, le stanze di governo, i cortili […]. Le storie siamo noi. 

A partire da questa introduzione in poi vengono proposti moltissimi argomenti – spesso scollegati. La difficoltà a intravedere un fil rouge e la frammentarietà del saggio sono i due motivi che mi hanno portata a dare solo 4 stelle su Goodreads.

Questione Incipit

Le buone storie, per funzionare, devono avere un punto di innesco.

Secondo Storr, questo punto di innesco è il “cambiamento”, il momento in cui si avverte uno strappo nella vita del protagonista e si ha la percezione – o meglio la certezza – che da quel momento la monotonia non sarà all’ordine del giorno. 

L’importanza del “cambiamento” può sembrare un’affermazione banale, ma quante volte vi è capitato di leggere un romanzo in cui le prime 20, 30 pagine sarebbero facilmente trascurabili perché non succede niente? A me è capitato di recente (purtroppo) e avrei voluto avere un paio di forbici per sfrondare non su quanti paragrafi di inutili e noiosissimi riempitivi “allunga brodo”. 

Il personaggio come punto di partenza

Un trama senza personaggio sarebbe soltanto una giostra di luci e ombre. 

p.83

E tanto meglio che il protagonista sia imperfetto. Storr elabora una vera e propria teoria del “sé imperfetto”, secondo la quale un protagonista, per essere vero, deve essere dotato di difetti e, soprattutto, di un suo modo di vedere il mondo. Oltre alla percezione di cambiamento, un libro diventa accattivante, se ci sentiamo attratti da una mentalità diversa dalla nostra, capace di incuriosirci e di sorprenderci. 

“Le buone storie sono indagini sulla condizione umana: viaggi entusiasmanti nei territori di menti sconosciute. Non riguardano tanto gli eventi che hanno luogo sulla superficie del dramma, quanto coloro che li dovranno affrontare. I personaggi, di cui facciamo conoscenza a pagina 1, non sono mai perfetti. Ciò che suscita la nostra curiosità, e offre loro una battaglia drammatica da combattere, non sono i traguardi che hanno raggiunto, né quel sorriso di vittoria. Sono i loro punti deboli.”

p. 44

Ogni personaggio avrà dei suoi tratti della personalità più spiccati e un autore dovrebbe conoscerli bene, così da fare agire il suo protagonista in una maniera logica, di causa ed effetto, e non secondo l’umore dello scrittore.

Storr ripropone lo studio dei Big Five, ossia di categorie comportamentali in cui si potrebbe inserire ogni personaggio. 

Per curiosità vi lascio un paio di esempi:

  • Nevroticismo alto, Miss Havisham (Charles Dickens, Grandi Speranze)
  • Apertura mentale alta (Lisa Simpson)
  • Amicalità alta Aleksej Karamazov (Dostoevskij, I fratelli Karamazov)
  • Amicalità bassa Heatcliff (Emily Bronte, Cime tempestose)
  • Coscienziosità alta (Sofocle, Antigone)

Strettamente legato a questo discorso è il mantenimento del punto di vista (focalizzazione), una bussola che filtra la storia e che deve tenere conto delle caratteristiche del nostro personaggio. 

Ad esempio, se il mio protagonista è analfabeta e sto sfruttando il suo punto di vista, non potrò scrivere quella parte come un’Accademica della Crusca o farlo parlare come un docente in cattedra. Oppure, se il mio protagonista è fuori per lavoro, non potrò fargli dire cosa stia accadendo a casa, perché sarebbe una gravissima intromissione dell’autore (a meno che il protagonista non abbia un efficientissimo sistema d’allarme sincronizzato al cellulare o una vicina impiccione che gli faccia la telecronaca h24… come la mia!). 

Occidente vs. Oriente

Da tenere conto anche la provenienza, l’estrazione sociale, la cultura del personaggio. È un paragrafo che mi ha incuriosita molto, perché non sono proprio aggiornata per quanto riguarda le letture orientali. 

Storr insiste sulla distinzione tra due modelli comportamentali diversi: l’individualismo occidentale (esemplificativo il mito greco di Narciso) e la collettività orientale. 

L’impronta culturale ha una sua eco di risonanza anche sulla struttura dei romanzi. Se in Occidente si continua a privilegiare la struttura in cinque atti con un occhio di riguardo all’evoluzione del protagonista, in molti romanzi orientali si dà importanza al gruppo, gli atti sono quattro e il finale è spesso aperto, volto alla ricerca dell’armonia del tutto. 

Questione di stile

Come vi dicevo, c’è anche qualche riferimento a tecniche di scrittura, ma si tratta di piccoli paragrafi. Storr sostiene la necessità in narrativa di prediligere lo show al tell, al fine di rendere il lettore una mente attiva e con la possibilità di partecipare al corso dell’opera. 

“I rapporti causa-effetto andrebbero mostrati, non raccontati; suggeriti, non spiegati. Altrimenti, la curiosità finirà per spegnersi, e i lettori o gli spettatori per annoiarsi”. p. 42

Ricorda poi l’importanza del lavoro di cesellatura del testo, del togliere ciò che è superfluo e, soprattutto, del prestare attenzione all’ordine in cui disponiamo le parole. Non ritrovo il punto nel libro, ma Storr si riallaccia ancora una volta alla neuroscienza: il cervello umano è in grado di percepire e trattenere pochi dettagli. Tutto quello che ci perdiamo viene riempito dall’immaginazione. Riporta anche un esperimento che avevo già letto su un libro di psicologia ai tempi dell’università: il gorilla invisibile. Non entro nei dettagli, ma vi lascio il link a un articolo in cui viene spiegato cosa si intenda per “cecità dell’attenzione”.

Perché tutto ciò? Perché uno scrittore non dovrebbe riportare tutto quello che è presente sulla scena, ma selezionare soltanto le informazioni necessarie per creare un contesto e permettere al lettore di farne parte. 

Qualcuno ha forse detto che scrivere sia un lavoro semplice?

Un’immagine della copertina presa da internet, perché sì, ho la mia copia, ma oggi sono troppo pigra per darmi alla fotografia!

Informazioni sul libro

Autore: Will Storr

Titolo: La scienza dello storytelling – Come le storie incantano il cervello

Casa editrice: Codice edizioni

Pagine: 247

Un commento

  1. Il Viandante Nero ha detto:

    Molto interessante!

    "Mi piace"

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